Teatro Vittorio Emanuele di Messina IL TROPPO MODERNO MACBETH DI BRANCIAROLI

 

MACBETH è certamente la tragedia più oscura perversa e sanguinosa di William Shakespeare, quella che racconta la seduzione del male, che viola ogni legge morale e naturale che distrugge l’anima dell’uomo. Ma in piu’ in questa messinscena messinese questo male è donna ….femmina ed occorre quasi far nascere figli maschi e solo maschi per liberarsene. La interpretazione di Branciaroli al Teatro Vittorio Emanuele di Messina non è altro che uno specchio di una inaridita coscienza che non racconta la brama e l’ascesa al potere, quanto piuttosto e, sin dall’inizio, una autentica discesa agli inferi, quasi a rappresentare la società di oggi senza salvezza e senza riscatto. E, dunque, la scelta della regia è una penombra funesta e costante, ove la luce seminascosta ha una predominanza su tutta l’azione scenica, improntata al senso reale del predominio del Male che appare subito ed in tutta la sua estrema necessita’ di potenza e vittoria. In questa ottica non è condivisibile la scelta in cui viene travolta anche Lady Macbeth che, come le streghe, appare un burattino ripetitivo d’odio del quale non si comprende poi la reazione finale: il rimorso…la apparizione improvvisa e non maturata di uno scheletro di donna impaurita e tremante che cerca ossessivamente di lavare le ombre del peccato, destinata anche Lei alla morte. Certo, non mi sarei aspettata la assoluta fedelta’ al testo, inconcepibile in un teatro moderno, ma sicuramente neppure una sovversiva e non condivisibile interpretazione dello stesso, sottolineato anche da una orribile traduzione nella scelta dei brani in inglese che se ci riportano le atmosfere shakespeariane, da una parte,dall’altra intristiscono la fluidità del racconto shakespeariano, quando poi riferiti solo alla intensità femminile del male. Franco Branciaroli cura la regia ed è esso stesso interprete insieme alla non convincente Valentina Violo e con Tommaso Cardarelli (Malcolm), Enco Curcuru’ (Banquo), Stefano Moretti (Ross), Fulvio Pepe (Macduff), Livio Renuzzi (Lennox), Giovanni Battista Storti (Re Duncan).

Macbeth sarebbe sedotto dalle Streghe che rappresenterebbero una minaccia al mondo patriarcale, ed entrerebbe – a dire del regista – nel mondo della seduzione perversa indotto all’omicidio dalla ambizione della moglie che si approprierebbe della natura di uomo. A tutto ciò può porre fine solo un “non nato da donna”. Tutti i personaggi entrano in una scena nuda, pirandellianamente nuda. I corpi sembrano immobilizzati nel ruolo in fondali grigio-neri dotati di porte che immettono in interni pericolosamente isolati, dotati solo di cunicoli…quasi un labirinto da cui è impossibile uscire. Qui non entra il sole, non è mai giorno e non è neppure quieta notte poiche’ non si dorme ma si uccide per essere ancora piu’ isolati. In questo squinternamento della conseguenzialità della vita si susseguono un insieme di tempi che sono un tempo unico …quello della strategia della morte, quasi un potere jiadista deviato come il califfato, dal quale non si osserva il passaggio della storia, sembrerebbe una fabbrica angusta e claustrofobica di eccidio.

Belle le luci di Gigi Saccomandi ed interessanti i costumi di Gianluca Sbicca che decontestualizzano il testo.

Ma chi è Macbeth? Un vassallo del re di Scozia a cui tre streghe hanno profetizzato onori ed ascesa al trono. E spinto dalla ambizione della moglie uccide il re e non solo. Una sequela di omicidi che inducono l’uomo agli incubi. Sopratutto il fantasma di un Generale trucidato lo perseguita inquietandolo per tutta la durata del regno. Tutto questo snodarsi di eventi non appare sulla scena …è un sottotesto che dovrebbe lasciar spazio ad una recitazione esemplare che se esiste per alcuno degli attori, non è quella dell’ironico Branciaroli che sembra a volte biascicare parole ripetute nella riflessione con il suo accento milanese come una memoria computerizzata. Resta la violenza degli avvenimenti narrati che non mi restituisce la poesia di Shakespeare neppure in quel “ Spegniti spegniti piccola candela della vita…la vita non è altro che ombra che cammina” che è l’apice del dramma, il resoconto pensoso e mesto della solitudine in cui resta l’uomo. Arriva invece e forte il senso dello smarrimento finale: La morte come una liberazione per chi conduce una vita dissennata e violenta.

Certamente è una fatica non da poco rendere la tristezza del Machbet di Shakespeare ma anche una pensosa riflessione del periodo storico di Shakespeare poiche’ il salto in avanti nella descrizione di un male moderno rischia di provocare un netto rifiuto di una opera profondamente ed essenzialmente poetica.

 

Anna Maria Mazzaglia

 

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