MEL GIBSON: LA GUERRA E DIO

 

La battaglia di Hackaw Ridge 

In una piatta Hollywood degli anni 2000 dalle vibranti commedie che sembrano forgiate sulle favole tabellari, neppure accattivanti per i bambini, sicuramente il film La battaglia di Hacksaw Ridge del sempre più profondo Mel Gibson appare come un evento quasi inaccessibile ed, in una Italia ormai mortificata e mortificante, i critici scettici e di maniera si pavoneggiano con le note stroncature che colpirono quasi tutti i films di Tornatore alle loro anteprime veneziane. Per questo sento il bisogno, quasi una necessità esistenziale di scrivere su questo enorme letterario film di Gibson che, al contrario della definizione data dagli intellettuali normo-tipo che lo hanno definito un kolossal privo di anima, nel quale il regista si compiacerebbe di metter in mostra gambe mozzate e viscere umane, sapientemente miscelate con un montaggio ad effetto, appare dal suo incipit un film intimista e silente che ha una suo sussurro di candida e stupefacente bellezza, come già era accaduto per Passion ed Apocalypto, Gibson ha compreso che se comunichi con il mezzo cinema stai parlando alle anime e dunque il cinema è una fonte spirituale di riflessione sul Bene e di ciò che in maniera devastante cerca di spazzarlo via: la guerra.

La trama è semplice: Desmon Doss, durante la seconda guerra mondiale si arruola come medico volontario nell’esercito, lui che aveva vissuto attraverso gli occhi del padre, Ufficiale nella grande guerra, l’effetto psicologicamente devastante dell’orrore che si era tramutato in violenza familiare, ed anche in una non voluta violenza personale del figlio per legittima difesa. Desmond si arruola ma non vuole nessuna arma ed è pronto ad affrontare la Corte marziale per la sua nobile convinzione. Il film è tratto dalla storia vera di un uomo che appare alla fine del film e che scomparve nel 2006. Il motto dell’uomo era “Signore dammi la forza di salvarne ancora uno”. In fondo il film descrittivo, narra, pagina per pagina, sia l’ infanzia che l’adolescenza del protagonista e del suo magico incontro con la donna della sua vita, lancia un monito che è fulminante: si può con il solo esempio di un ideale: la fede, non solo salvare vite umane, ma anche indurre altri ad avere la forza di vincere e di provare pieta’ per un nemico che è solo un uomo sofferente per ragioni…. quelle della guerra, che determinano il suo crudele destino di cui lo stesso non è colpevole? E la forza di un Dio che ti segue può, da sola, esser sufficiente anche a vincere? “In hoc signo vinces”, era il grido dei Crociati, per chi la Storia conosce.

La fede nel film pero’ non è sbandierata come un grido perenne, è silente e maestosa, è il sottotesto attraverso cui prende forma il film e si innalza in qualcosa di non spiegabile ma solo percepibile: come può un idea forte cambiare le sorti dell’uomo.

Il film candidato a tanti Oscar ed anche a quello per il miglior film, ne meriterebbe uno sicuramente per la regia che è anche quella maestria di una sintesi non semplice da compiere anche nello stile di un montaggio che riproduce la guerra nella sua bestiale deformità ma che pone vinti e vincitori nello stesso inferno di brutalità sul quale ovviamente l’eroe si interroga in un modo straziante “Ma TU cosa vuoi da me”, una domanda che chissà quante volte ci siamo fatti di fronte ad eventi maledetti che capitano inattesi nella nostra vita che ci fanno chiedere alla nostra spiritualità fin quanto essa è superrima ….fin quanto amiamo i nostri ideali e sino a quanto siamo disposti , in nome del Bene, a sopportare. Oscar sicuramente ad Andrew Garfield un protagonista che mentre piange o prende a pugni un muro è manifestamente spoglio da finzioni come lo è naturalisticamente espressivo quando torna sorridente innanzi alla Corte Marziale a sfidare chiunque vuole frapporsi tra il suo credo e sia pure un dovere di guerra: imbracciare una arma. Nel film ci sono tutti i contrastanti affetti familiari …niente è solo male…nulla è solo bene….ma l’eroe resta una guida santifica, non solo colui che avrà la medaglia d’onore, qualcosa che ti segue quando già sei fuori dalla visione e stai solo in disparte anche se sei stato in sala con amici, qualcosa che fa misurare con sé stessi e mi fa dire e ridire: beata potenza del cinema che scuoti e fai pensare e continui ad educarmi e consolarmi, beata visione che arrivi come un raggio che mi trafigge e mi fai interrogare sul valore e il disvalore. Il gigante Gibson mi impone di penetrare il fondo del movie di leggerlo tutto di coglierne la lirica il girato la fotografia, di essere una foglia tra le pozzanghere ed anche un occhio della stessa macchina da presa che è formidabilmente spinta in avanti nel progredire della vicenda. Cinema di pienezza oltre che di puro sguardo, che si frammenta e cosparge in polvere di piume tra le pagine del libro di tutti i tempi una piccola bibbia…di cui non possiamo perderne il valore di grande voce della Memoria.

Anna Maria Mazzaglia Miceli

 

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