QUEL ROSSO SUD DI SERGIO RUBINI

 

Torna di nuovo a riappropriarsi degli anni settanta Sergio Rubini che arriva al Teatro Vittorio Emanuele di Messina da istrione, proponendo l’attore autonomo, come già era stato per i grandi interpreti Gasman ed Albertazzi, riesumando una certa insofferenza per le radici registiche rappresentando le tappe di un percorso e della propria natura e rivivendo la leggenda del mito di Kean.

Una eleganza accompagna la scena che si presenta tinta di rosso-passione, con un trio jazz capeggiato da Michele Fazio (al pianoforte) e con Marco Loddo (al contrabasso) ed Emanuele Smimmo (alla batteria), per ricreare e seguire un racconto colto, anche interagendo con l’attore che mescola questo supremo jazz con musiche da atmosfera. Ma cosa è Sud? Su tutto campeggia l’idea che il Sud sia terra non solo di povertà ma anche di grandezza ove la poesia trascina l’anima in una perpetua catarsi, oltre che luogo di grandi speranze. E Sergio Rubini questo Sud lo sente Suo e Nostro, amato non ripudiato, esaltando l’arte e gli artisti del suo piccolo paese di provenienza di cui porta con sé il bravissimo Fazio. Ecco il Sud è scrittura …è cultura …è immersione…è pensamento e coscienza ed è camminamento. Lo spettatore è un voyer che si fa dominare da questa ondata d’amore e di passione…. e sì perché non dimentichiamo che Rubini è un regista sceneggiatore drammaturgo di altissimo livello ed anche se ha un leggio con sé, interpreta i gesti…le pause …riflettendo sul senso della comunion – cazione. Così il suo personale recital ci porta verso la Magna Grecia …per ricordare attraverso Eschilo che siamo un misto di conquista e di idee e passando attraverso rievocazioni personali (il padre capostazione) ci trasporta con Matteo Salvatore ed Eduardo De Filippo entro la metafora del “riscatto” degli umili, penetrando gli anni della industrializzazione per cancellarli e facendoci anche sorridere con “La guerra dei cafoni” di Carlo D’Amicis, verso una meta impossibile per chi continua a rimanere cieco davanti alla bellezza di ciò che siamo, pur partendo e ritornando, poiché il “Viaggio” non è solo all’indietro nel tempo per recuperare memoria e radici ma anche in avanti suggerendo, attraverso l’ironia, quale è e dovrebbe essere la meta di coloro che arrivano nel Sud come un destino desiderato e sperato, poiché nel Sud si piange e si sorride e dal Sud arrivano le dolci rime. L’apice è il diario dei soprannomi in vernacolo dello scrittore Giacomo D’Angelo, venditore di giocattoli, che ci regala un testo musicale nell’enfasi crescente del Rubini, grande attore misurato pur nelle sue personali iperboli. Ed il decodificatore strutturalista del testo è Lui colui che da la comunicazione di senso e ne enuclea i codici interpretativi. Rubini diventa una icona un oggetto-soggetto di desiderio culminante nella idea “pancronica” di quel meraviglioso saliscendi ritmico della declamazione del semplicismo di D’Angelo. Lo spettacolo è bellissimo, fine, incandescente mentre si consuma nella luce rossa che non è tramonto sul mare ma anche fuoco per chi Sud significa dimora di virgole ed accenti ai piedi di Vulcani che osano anche ribellarsi e ricrearsi in nuovi e struggenti paesaggi.

Anna Maria Mazzaglia

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