IL FESTIVAL DI TAORMINA DALLA SICILIA ALLA STORIA DEL DIVO AMERICANO PIU’ AMATO AL MONDO

MARIO SOFFIA SULLA CENERE per la regia di Alberto Castiglione e’ uno dei film che riempiono il grande schermo del Palacongressi di Taormina in questo Festival rinnovato che vuole suggerire un nuovo approccio al modo di intendere un Festival, non solo legato intimamente al territorio, ma progredito contenitore di produzioni e rilancio della Sicilia intera come motore del cinema made in Sicily ma anche di quello internazionale. Alberto Castiglione arriva a Taormina con una esperienza di documentarista, con un cast eccellente, da Alessandro Schiavo a Diego Montaperto a Salvo Piparo e con Lorenzo Santamaria, Aurora Quattrocchi, Simona Malato e la nostra brava Marika Pugliatti. Il film che e’ stato finanziato dalla Film Commission Regione Sicilia e narra di fatti che si collocano, tra gli anni ’80 ed oggi, in un paese dell’entroterra di Sicilia. Si racconta la vita di una famiglia e del suo rapporto con la terra che è lavoro, fonte di sussistenza e di vita. Questo rapporto, forte e pieno di contrasti, duro e passionale, emerge attraverso l’esperienza di vita di un bambino, Mario, e poi attraverso i suoi ricordi e i conflitti interiori di uomo adulto la cui vita si svolge in città, a Palermo. La morte della nonna Angela (figura di forte riferimento per il protagonista) ed un amore inaspettato, saranno il motivo scatenante nella rielaborazione del passato di Mario, in cui si nasconde un segreto che Mario si porta dentro che lo allontana dalla famiglia, dalla madre e dalle sue origini. Mario e’ assillato dal legame che il padre nutre con la terra, non ne comprende le motivazioni e sopratutto non sa il valore dei principi familiari che legano tutti intorno alla “gemma” del territorio. Il nonno, la nonna la famiglia intera amano la buona terra come simbolo della unione. Mentre il ragazzino vuole esplorare il mondo ,sopratutto e’ attirato dalla scuola…ed un giorno mentre si trova col padre ed il fratello alla mietitura un furioso incendio irrompe come catastrofe disarmante. Il film volutamente non fa comprendere chi muore e chi sopravvive, ma ritroviamo un Mario ormai grande, dotto ed infelice, sfugge all’amore e sembra aver tagliato i ponti con il passato, quando proprio l’amore lo fa tornare indietro e confessare che l’autore inconsapevole della morte del padre e di quel pauroso incendio e’ proprio Lui. La natura e l’olivo piantato con il padre diventano l’emblema della continuità che contiene in se’ l’essenza del perdono. Tuttavia il film non e’ compiuto, sebbene il regista tenti di spiegarlo, resta freddo e distante ….troppo lento nella prima parte senza far trasparire la crisi di Mario ne’ la sua ribellione. Persino non si comprende chi muore e chi resta e decisamente non vi sono grandi prove attoriali. C’e’ invece una consapevolezza del regista, per me non ancora sufficientemente maturo, già pronto a fare altri film, ben supportato, che sembra muoversi bene dentro le produzioni, senza avere ancora la coscienza di un approfondimento. Ed e’ forse per questo che personalmente apprezzo di piu’ HANDY LA RIVOLTA DELLE MANI SICILIANE che mi fa conoscere uno scanzonato Vincenzo Cosentino che ha condotto i suoi studi cinematografici in Australia ma che, tornato in Sicilia, si autoproduce in un geniale film che parla di una mano che si stacca dal suo svogliato e non consapevole scrittore che ha anche confuso quali delle sue mani sono meritevoli di un viaggio alla ricerca della scrittura giusta. Handy diventa cosi’ un film di animazione avvincente che ci porta, on the road, sulle strade della Sicilia, guidata da un maturo Franco Nero, scrittore intuitivo ed oscuro. Handy diventa tutto, anche la produzione stessa, mentre Cosentino e’ sicuramente un autore che può dire e raccontare tanto nel suo essere dentro e fuori il film, ricordando anche l’amata scomparsa nonna. Bella ed intensa la sceneggiatura. Un ragazzo che presentandosi, senza fronzoli e senza inganni, ha una maturita’ artistica suggestiva e prorompente.

Ci immergiamo ancora nella visione del film francese RODIN, anteprima italiana dopo Cannes, di Jacques Doillon. L’eccezionalità dello stile dell’artista stravagante lo ha visto subire feroci critiche da parte degli addetti ai lavori dell’epoca (siamo a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo), e lui era moderno e devastante, in anticipo sui tempi di almeno dieci anni. All’età di quarant’anni – Rodin ottiene finalmente il primo lavoro su commissione, voluto dallo stato francese. L’opera richiesta era la Porta dell’Inferno, un gruppo monumentale ispirato all’opera dantesca, in cui l’artista ha la possibilità di esprimere tutto il suo amore per il mito e la letteratura, col risultato di dare vita ad un’opera fuori dai canoni classici ma dotata di un’espressività straordinaria. Diviso tra il matrimonio con Rose (Séverine Caneele) e le tante amanti, tra le quali spicca la relazione amorosa con la studentessa Camille (Izïa Higelin), una donna che fu molto importante anche per la direzione artistica intrapresa dall’uomo, che tuttavia non prenderà mai il posto della moglie. Sullo sfondo gli importanti incontri con Cézanne e Monet, fondamentali nella sua evoluzione. La vera svolta professionale di Rodin arriva quando gli viene commissionata una scultura rappresentativa di Honoré de Balzac, un’opera tanto inizialmente rigettata e discussa, quanto indubbiamente geniale, in cui il rispetto per le proporzioni viene sconvolto in favore di un’esasperazione nella rappresentazione dell’indole e del carisma dello scrittore, col risultato di dare vita ad un’opera eloquente e straordinaria, successivamente considerata capostipite dell’arte moderna. Certo il percorso di vita di un grande artista suscita sempre una certa curiosità, l’esigenza di realizzare una sorta di biografia non fa bene i conti con tempi cinematografici, ci troviamo innanzi ad un ennesimo film biografico che non cattura, composto da una diligente raccolta dei momenti più salienti della vita, didascalico, senza picchi ne’ voli toglie la scena anche al bravissimo Vincent Lindon ingessandolo in un ruolo ripetitivo. Rodin è quindi un’opera che manca di vitalità, tutta confinata a descrivere le effusioni amorose dell’artista nei confronti delle tante donne.

Bellissimo invece il documentario americano BECOMING CARY GRANT di Mark Kidel. Lo troviamo tutto negli spezzoni dei film piu’ famosi e meno famosi. Cary Grant costretto a lanciarsi per terra per sfuggire all’attacco di un aeroplano, a strisciare sulla terra arida per scampare alla raffica di missili che arriva dal cielo in Intrigo internazionale, Cary Grant che in Arsenico e vecchi merletti bacia la moglie Elaine portandola in braccio fuori di casa solo perché non trova un altro modo per farla stare zitta, Cary Grant nervoso per la guida decisamente sportiva di Grace Kelly tra i tornanti delle strade di Montecarlo in Caccia al ladro: questo è tutto quello che abbiamo già, che è nel nostro immaginario. Ma c’è altro al di là del Cary Grant grande attore, del divo di Hollywood bellissimo e elegantissimo nei suoi completi su misura. Ci sono l’insicurezza, la fragilità e i trattamenti con l’Lsd, ultima speranza per “raggiungere la pace della mente”, di un uomo che ha dovuto fare i conti con una doppia identità: questa è la parte che finora non conoscevamo e che invece Mark Kidel indaga con il suo documentario Becoming Cary Grant, première all’ultimo festival di Cannes e presentato ora, a Taormina

E la cosa bella è che a raccontarci come Archie Leach ( vero nome di Cary), nato a Bristol, sia diventato Cary Grant, cittadino americano, è proprio Cary Grant. “Abbiamo trovato una sua autobiografia inedita – spiega il regista e documentarista che ha già portato sul grande schermo la vita di grandi musicisti e artisti come Elvis Costello o Bill Viola – lui non amava farsi intervistare, interviste televisive con Cary Grant praticamente non esistono e allora abbiamo pensato di costruire il film attraverso la lettura di parti di quell’autobiografia e immagini prese da filmini, pressoché sconosciuti, girati dallo stesso attore”. Così, dallo schermo, Cary Grant ci parla attraverso la voce di Jonathan Pryce (l’Alto Passero ne Il trono di Spade, Elliot Carver ne Il Domani Non Muore Mai) e quello che viene fuori è una sorta di resa dei conti, la seduta di psicanalisi finale.

Per arrivare ad ascoltare la voce di Cary Grant dire “alla fine, mi sento molto vicino alla felicità” dobbiamo vederlo girarsi e rigirarsi, sudato e bendato, nel lettino del dottore dove, una volta a settimana, per cinque ore ogni volta, sperimentava trattamenti con l’Lsd. “Alternavo visioni terribili a visioni felici, un montaggio di amore e odio intensi, un mosaico di sensazioni che emergevano dal passato e si riassemblavano”. Negli anni Cinquanta, “quando – dice Kidel – Grant era davvero un’anima tormentata”, fare trattamenti con gli acidi era legale e per Grant che aveva già provato yoga, ipnosi, tutto senza successo, fu la strada per “trovare quello che cercavo”. Il dramma che Cary Grant doveva superare era l’abbandono della madre, che lo aveva lasciato quando lui aveva undici anni. Questo lo spinse, all’età di quattordici anni, a scegliere di lasciare la Gran Bretagna con una compagnia di circensi diretti a New York. “Non sarebbe tornato presto a Bristol, non ne aveva motivo”. In effetti nell’arco di una decina di anni, Archie aveva cambiato nome, affinato quello che sarebbe diventato il suo inconfondibile accento, si era trasferito a Hollywood e aveva firmato un contratto con la Paramount con compensi esagerati per l’epoca. Ma la sua vita privata era un’altra storia: la Gran Bretagna, le sue origini umilissime, sua mamma… tutto era fisicamente lontanissimo, ma le cicatrici che quei pochi anni vissuti da Archie avevano lasciato erano profondissime.
Cinque matrimoni non sono indice di un carattere che si annoia facilmente: “ero circondato da belle donne – confessa Grant nel documentario – ma non sono mai riuscito a comunicare davvero con loro. E per loro, d’altra parte, è stato impossibile avere a che fare con me”. Cary Grant non era più in grado di dare fiducia alle donne da quando quella più importante della sua vita lo aveva abbandonato. “L’Lsd mi ha fatto capire che stavo uccidendo mia madre attraverso le relazioni con le altre donne. La stavo punendo per quello che mi aveva fatto”. In Becoming Cary Grant, David Thomson, storico del cinema, accenna solamente al tema della bisessualità che invece ha animato per anni le conversazioni attorno all’attore. Thomson dice: “a subire il suo fascino erano sia uomini che donne”, senza però poi andare in profondità. “È una questione aperta – dice Kidel, il regista – nonostante a Hollywood ci sia qualcuno che sostenga di aver vissuto per dei periodi con Cary Grant, è davvero una questione irrisolta”. Ma se l’Lsd salva Cary Grant dal suo dramma personale, a salvare la sua carriera quando, negli anni più bui, l’attore sta concretamente pensando di ritirarsi, è Alfred Hitchcock, che gli affida il ruolo di protagonista nel suo Caccia al Ladro perché vede qualcosa in lui su cui gli altri non si erano ancora soffermati. Il paradosso, infatti, è che Hitchcock lo salva attribuendogli un’altra faccia ancora, che non avevano avuto fino a quel momento né l’attore Cary Grant sullo schermo, né Archie nella vita. Hitchcock fa emergere il lato oscuro e cupo che Grant manterrà anche nei film successivi ai quali i due lavoreranno insieme. Il tutto proprio mentre “settimane di trattamento stavano riportando la luce nella mia vita”. Il Taofilm Fest prosegue oggi con tanto altro cinema e la Master Class che porta tanti giovanissimi gia’ arrivati ieri a Taormina. Il cinema sta trionfando perche’ riscatta con la sua intima luce, indicando un radioso futuro.

Grazie a chi lavora nell’ombra, per questa edizione di forte impegno del Festival internazionale di Taormina

Anna Mazzaglia

Ti potrebbe interessare anche: