FILM IN CONCORSO …FILM CHE NON DECOLLANO MA FA INCETTA DI PREMI MERITATISSIMI IL MIO PREFERITO BOILING POINT

A Taormina film Fest vince Boiling Point e vi dico perchè

In concorso a Taormina il film “Baby Piramyd” della regista danese Cecili McNair che indagherebbe la necessità, per Lei direi assoluta e straziante, di avere un figlio a tutti i costi e lo declama dal palco del Teatro Antico: “Volevo indagare il desiderio profondo di avere un figlio, quel desiderio che fa arrivare al punto di rubare gli ovuli di un’altra donna”. Ed allora mi sembra che questo film non è una indagine sulla infertilità ma un dramma psicologico che probabilmente ha origine nel profondo inconfessato e solitario delle vite delle due protagoniste. Dice ancora la regista di essersi ispirata alla piramide dei bisogni di Maslow e del soddisfacimento di questi bisogni: “Ora ho trentasei anni e sto per diventare madre. Spesso se non sei madre ti senti esclusa da certi discorsi, proclama la stessa ma oggi i confini si espandono e si spostano in avanti e puoi diventare madre laddove prima non era possibile. Ci sono tanti trattamenti per l’infertilità”.

Un film che dunque affronterebbe un tema (quello dell’infertilità) che è ancora un tabù nella nostra società? Ma non direi dato che ho sperimentato che esistono cliniche per impianto di ovuli anche in Sicilia. Comunque il film si svolge in una clinica per la fertilità e insiste sull’interrogativo: fino a che punto si è disposti a spingersi per mettere al mondo un bambino. Protagonista di Baby Pyramid (prodotto da Nordisk Film Production), l’attrice serbo-danese Danica Curcic, premiata dalla Danish Film Critic Association per la sua performance in Silent Heart che vince a Taormina la Maschera di Polifemo come miglior attrice protagonista. Con lei nel cast Laura Hallen Müller, Henning Valin Jakobsen, Christine Albeck Børge e Anders Mossling.

Stilisticamente la regista sa raccontare e tratteggiare I profili di due donne, colte nei loro pensieri profondi ed indagate psicologicamente, magistralmente, ma non raggiunge che l’obiettivo di mostrare che il mondo danese evidentemente rasenta la follia. Oltre ai trattamenti per la fertilità, c’è anche la possibilità dell’adozione: perché si accenna a questa alternativa ma la regista, per il momento la rifiuta, possibilmente perché la ha rifiutata Lei stessa?

Ho scelto deliberatamente di non includere questo argomento perché volevo scavare in profondità quest’altro problema e capire cosa si prova. A un certo punto della mia vita anche io ho pensato di adottare un bambino, ma in Danimarca è un percorso difficile e più si è grandi più il bambino che ti viene dato è grande. Sicuramente, quello dell’adozione, potrebbe essere un buon tema per il mio prossimo film. Qui io volevo dare voce a quanto sia difficile sottoporsi a dei trattamenti contro l’infertilità e di quanto sia frustrante e doloroso non riuscire a rimanere incinta”.

Tante donne rinunciano a tutto per iniziare questo percorso e poi man mano perdono la lucidità mentale sacrificando la propria vita per poter perseguire questo sogno di avere un bambino”. Insomma un pensiero tutto particolare e personale che mi sconvolge come mi ha sconvolto il film, per come ha trattato il tema dell’infertilità, questo non fa parte della nostra cultura e forse di quella danese sì ma andiamo alla storia: Hannah lavora in una clinica per la fertilità in Danimarca, dove ogni giorno aiuta altre donne che sognano una gravidanza. È un sogno condiviso anche dalla stessa Hannah, che dopo la fine di una relazione si sottopone a trattamenti senza però ottenere il risultato sperato. Per caso incontra Gery, in un bagno dove si rifugia per nascondere la sua disperazione alla vista del sangue e del proprio fallimento, l’altra donna è per Lei una sconosciuta che sembra capirla ma, di lì a poco, va a trovarla in clinica pregandola di aiutarla con la procreazione assistita nonostante sia oltre il limite di età previsto dalla legge. Hannah inizialmente accetta, ma conoscendo bene Lei ed il marito non appena scopre che Grey ha praticato più aborti in passato perché secondo la donna “non era il momento giusto per fare un figlio” si complica la vita e le fa rabbia che adesso la donna potrebbe ancora aver un figlio con il sistema della fertilità assistita, dunque ruba gli ovuli fecondati sperando che sia la svolta della sua vita. Ovviamente il gioco perverso viene scoperto sino alla distruzione professionale di Hannah che perderà ancora una volta il bambino e la professione.

Non è da poco l’impresa della regista Cecilie McNair, che nei personaggi di Hannah e di Grey riversa una complessità psicologica ai limiti della paranoia . Baby Pyramid adotta un approccio concettual-filosofico che non mi porta ad aderire né al film né alla idea che sottende

Il film può contare su una sceneggiatura affilata come un rasoio e brutale nella sua linearità, senza mai fare sconti al personaggio di Hannah (bravissima la protagonista Danica Curcic). E sicuramente vi è un ottimo lavoro sulla fotografia, che immerge i personaggi in un mondo artificiale e precostituito come le protagoniste che non sembrano neppure piu’ avre un aspetto umano esse stesse.
Il tripudio di colori tenui e
delicati della clinica di lusso fanno da controaltare alla prigione delle idee delle donne che sembrano vivere una tranquillità falsa in cui cova una frustrazione sempre più palpabile. Solo sul finale ci sarà speranza di uscire a vedere paesaggi più autentici, quando il dramma si completa ed evidenzia non un inno alla vita e alla natura che però è stata tradita e vilipesa nella coscienza (direi malata) di entrambe. Un film lento e che non incanta da accantonare dicendosi però: questa regista che sembra brava perché non racconta altro?

Ancora film in concorso “Le voci sole”. il film diretto da Andrea Brusa e Marco Cotuzzi, racconta la storia di Giovanni (Giovanni Storti), rimasto senza lavoro a causa della pandemia, costretto a emigrare in Polonia per cercare una nuova occupazione. Mentre regna sovrano nel film minimalista la descrizione del grigio mondo delle macchine che hanno avuto il sopravvento sull’uomo Giovanni resta in contatto con la moglie (una bravissima Alessandra Faiella) e con il figlio (Davide Calgaro) grazie a lunghe videochiamate quotidiane in cui la donna gli insegna a cucinare da remoto e poi tutta la famiglia cerca di cenare insieme sempre con la video camera del cellulare. Il contrasto tra il mondo del lavoratore e quello di chi resta è forte e qualcuno spesso dice: ma perché non andiamo in Marocco, la vita non costa e c’è caldo e la pandemia non c’è. Già una pandemia che sta sullo sfondo del film ma che è nel film palpabile nel grigio nero di una fabbrica sconosciuta.
Improvvisamente una di queste telefonate diventa inaspettatamente virale in rete, la coppia raggiunge una popolarità – grazie anche all’aiuto del figlio – che pare la soluzione di tutti i loro problemi economici.
ll video diventa virale, trasformando “Rita e Giovanni” in un brand famoso sui social network. Giovanni, pur sfiancato dal lavoro, si presta a girare altri video di ricette su richiesta di Rita, attività che frutta alla famiglia sempre più soldi e sponsor. Ma il mondo digitale è pericoloso e il marito lontano da casa diventa lo zimbello della gente, insultato e ferito perché stanco e meno brillante della moglie che conosce tutte le ricette. Tutti tranquillizzano Giovanni …tanto sono voci sole… Le “voci sole” sono quelle dei commenti negativi sul web, rigorosamente da ignorare. Ma nel sobrio lungometraggio d’esordio dei due registi che unendo pandemia e disastri cercano di strappare anche una risata le voci sole fanno a pezzi la famiglia e la complicità di persone semplici.

Si i registi si soffermano sulla pandemia, ma in fondo fanno un discorso che include la precarietà e la delocalizzazione in un mondo del lavoro sempre più frammentato. Sfruttando al meglio le circostanze produttive( si capisce che è un film low budget) il film lavora sui dialoghi fuori campo . L’effetto è da documentario d’autore intervallato da scene domestiche da una cucina all’altra, creando quel senso di solitudine ed oppressione che il film forse vuole. In fondo è una risata amara su questo mondo miserrimo di oggi diviso tra brutalità di eventi e social sempre piu’ presenti e sconvolgenti che sono la summa di una vita che è alla mercè di un palcoscenico oscuro: il mondo dei social in cui tutti ci rifugiamo. Il film interessante per certi aspetti, non decolla nonostante la bravura dei suoi protagonisti.

In concorso anche una divertente leggera commedia per la regia di Massimo Gomez con Michela De Rossi, Filippo Scotti, Paola Minaccioni, Violetta Zironi, Alessia Giuliani: Io e Spotty. A Bologna, la venticinquenne Eva è una studentessa di legge fuorisede e fuoricorso, che non riesce più a dare esami e soffre di attacchi di panico. Per non gravare sulla madre cerca un nuovo lavoro come dog sitter e le risponde Matteo, giovane animatore di cartoni animati. Il ragazzo la invita a casa sua per prendersi cura del cane Spotty, ma all’arrivo Eva si rende conto che sotto le chiazze bianche e nere del pelo c’è proprio Matteo in costume.

Oggetto filmico in controtendenza nella galassia del nostro cinema, la seconda regia dell’ex scenografo Cosimo Gomez – dopo “Brutti e Cattivi” del 2017 – ne conferma la sensibilità originale come scrittore e ci consegna una girandola pop di tumulti emotivi giovanili, tra il romantico, la commedia e la storia di formazione.

Si parla però anche di salute mentale, con cui sia Eva che Matteo, fanno i conti. Psicofarmaci e terapia per la prima, un po’ schiacciata dalle aspettative accademiche familiari. Per Matteo invece la sfera parentale è segnata da un lutto, e a poco servono i tentativi di avvicinamento di una sorella con una nuova famiglia in costruzione. Il suo rimedio è assumere le sembianze di un cagnone in cerca di qualcuno con cui giocare, motivo che fornisce al film una serie di gag molto riuscite nella parte centrale.

L’atmosfera del film è malinconica ma non drammatica e non avvolge i protagonisti. Filippo Scotti, nel frattempo diventato volto noto con la partecipazione a “E’ stata la mano di Dio” fa una prova eccellente, mentre Michela De Rossi, chiamata a reggere il film in modo più continuativo, afferra la parte della protagonista con il cruciale compito di far accettare e comunicare la storia allo spettatore, oltre che di creare una ragazza sfaccettata che ha trovato alcuni ostacoli nella realizzazione di sé. Ma l’amore vince e cura e porta a casa il PREMIO DELLA GIURIA POPOLARE come MIGLIOR FILM con menzione speciale proprio a Michela De Rossi. Ma per la sincerità che ho nel comunicare neppure questo film mi fa saltare dalla sedia.

Tutt’altra cosa avviene per il film Bioling Point di Philip Barantini che fa incetta di premi a Taormina vince Il CARIDDI D’ORO per il MIGLIOR FILM, il CARIDDI D’ARGENTO per la REGIA e la MASCHERA DI POLIFEMO al bravissimo ATTORE PROTAGONISTA Stephen Graham.

Stephen Graham interpreta Andy, un capo cuoco in un ristorante di lusso. Graham è diventato uno dei migliori attori britannici, ed è eccellente in un ruolo che vede una brutta giornata sprofondare lentamente sino alla fine. Il film inizia con lui che è di nuovo in ritardo al lavoro, che puzza di alcol e che lotta per sopravvivere, con molte situazioni tristissime che gli rotolano addosso senza che Lui possa fare nulla per districarsene inseguito da un ufficiale sanitario deluso dal fatto che gli standard del ristorante stanno peggiorando. Il locale è segnato da un punteggio di pulizia massimo di cinque a un mediocre tre, ed è chiaro che gli standard hanno effettivamente iniziato a scendere negli ultimi due mesi. Andy ha un carattere irascibile e all’inizio prende di mira il suo staff per la scarsa valutazione, ma è evidente e tutti sanno che il problema è Lui. Quando il ristorante finalmente apre, gli ospiti comprendono una serie di avventori ancora piu’ tristi con cui si destreggia il personale: un patriarca razzista che non vuole che la cameriera di colore tocchi i suoi piatti o gli versi il vino, uno chef famoso che vuole restituiti dei soldi ma in realtà è invidioso del successo del proprietario, un gruppo di turisti americani che sono degli scoppiati influenzer e un uomo che sta per chiedere la mano alla sua ragazza, che è allergica alle noci ( e che si sente poi male a causa di una svista di Andy). Andy è particolarmente stressato dal fatto di dover servire il famoso chef Alistair Skye (Jason Flemyng), per il quale lavorava. Come se questo non fosse abbastanza terribile, egli si presenta con la critica gastronomica Sara Southworth (Lourdes Faberes), indiscutibilmente ricattandolo. Ma il dramma al piano del ristorante non è niente in confronto a quello che succede in cucina. Ogni membro del personale ha i suoi problemi. A uno è stato offerto un lavoro meglio pagato altrove, un altro ha pensieri suicidi, la lavapiatti è incinta ed è arrabbiata perché il suo facchino è in ritardo, mentre un altro è alla prima settimana di lavoro. La sous-chef Carly (Vinette Robinson) odia il responsabile di sala, e lo chef (Ray Panthaki) odia tutti.

L’eccellente sceneggiatura è stata sviluppata dall’omonimo cortometraggio “one-shot” candidato al BIFA dal regista Philip Barantini e dal co-sceneggiatore James A Cummings. Ma una cosa che mi attrae tanto è che il film è fatto in una sola ripresa, La camera lo insegue sempre insieme agli avventori del ristorante come avviene nella vita…senza un attimo di respiro. Un personaggio se ne va a spacciare droga; un altro piange dietro una porta chiusa in un bagno. Ma questi momenti sono scusabili in questo sforzo molto impressionante di Barantini, che è chiaramente qualcosa di forte sia come scrittore che come regista. Tutto però non è lasciato al caso ma pre-visto ed è maniacalmente seguito. E cosa altro è la vita se non questo spaccato di ristorante sospeso nel vuoto pieno di cibo accattivante e di uomini e donne provati, ognuno con il loro dramma. Il film mi ha coinvolto ed emozionato sino alla fine di Andy che rotola di lato da una parte senza che nessuno sappia che quel giorno è un giorno maledetto lungo quanto una vita ove non vi è sosta. Inoltre questo film mi fa pensare al disastro universale dei nostri ristoranti nel mondo chiusi per colpa di un virus che è piaciuto a tutti…meno che a noi e che non abbiamo scelto e che forse continuerà come le inutili guerre. Posso dire Sì: bellissimo e centrato non avrei premiato nessun altro film.

Boiling Point è una produzione britannica di Ascendent Films e Burton Fox Film in coproduzione con Three Little Birds, Matriarch Production, Alpine Films, White Hot Productions, Insight Media Fund.

Anna Maria Mazzaglia Miceli

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